martedì 26 settembre 2017

Relazione tra Cibo e spiritualità

LETTERA DEL MINISTRO GENERALE DEI FRATI MINORI CONVENTUALI
Carissimi frati,
il Signore vi dia pace!
In questa lettera, che vi giungerà nel tempo di Quaresima, voglio centrare il mio discorso sul tema del cibo e del nutrimento, sui gravi problemi legati da una parte alla piaga della fame e dall’altra agli eccessi della sovralimentazione, come anche sulle ingiustizie che si consumano nella produzione, distribuzione e fruizione di quanto dovrebbe servire a soddisfare i bisogni di tutti. Tra cibo e spiritualità intercorre da sempre un legame stretto e inscindibile, non solo di carattere funzionale: noi siamo anche quello che mangiamo o non mangiamo, e il rapportarci con il “pane quotidiano” che è nostro e altrui, dono del Signore perché nessuno ne venga a mancare, dice molto della nostra identità cristiana.
Il tema del cibo mette la Chiesa direttamente in rapporto al mondo e all’interno del mondo, nel senso che la Chiesa in uscita delineata da Papa Francesco deve abbandonare ogni autoreferenzialità per assumere il passo degli uomini e delle donne del nostro tempo. In questo senso i religiosi sono uomini di frontiera, chiamati a vivere creativamente le sfide di tutti (e quella del cibo è una delle più importanti) con autentica condivisone e audacia profetica. Il loro “non essere del mondo”, infatti, non può giustificare in alcun modo un ritrarsi dal mondo che significhi disinteresse, anche perché, come ha affermato Teilhard de Chardin, “senza il mondo la Chiesa è come un fiore fuori dall’acqua”. Se da una parte la Chiesa è salvezza per il mondo, il mondo è salute per la Chiesa, il luogo dove l’andare dei discepoli di Gesù diventa incontro, comunicazione, scambio. Scrive Papa Francesco: “Acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!” (Evangelii gaudium n. 274). Con questo spirito vogliamo trattare un tema così centrale e urgente per la vita del mondo.
La gente considera i francescani persone frugali, anche nella tavola, e soprattutto fratelli universali attenti alle necessità di tutti, in particolare dei poveri. Siamo noi all’altezza di questa fama? Possiamo in qualche modo ripensare in modo creativo i nostri stili di vita, di alimentazione, i criteri con cui usiamo dei beni della terra? L’idealità che ci spinge a voler cambiare il mondo comincia da gesti semplici e quotidiani, condivisi e fraterni, assunti come segni della benedizione che Dio riversa su di noi e attraverso di noi sul mondo intero.
A questo punto non posso tralasciare di dare uno sguardo, insieme a voi, alla situazione complessiva del nostro ordine così come si va delineando in questa seconda decade del terzo millennio. Questa mia Lettera vuole essere la prima di una serie dedicata alla solidarietà e agli stili di vita. Non solo per testimoniare al mondo che la sequela profetica trasforma l’esistenza e la apre al dono di sé, ma anche perché tra di noi, a ogni livello (singolo frate, convento, provincia, circoscrizione, ordine) vi sia la dovuta attenzione alle necessità dei più “piccoli”, singoli e collettività. Nell’ultimo Capitolo generale, che si è celebrato in Assisi nel gennaio 2013, è stata approvata una Mozione (la n. 4) nella quale si chiede che venga incentivata la solidarietà fraterna. Naturalmente non è il pane a mancare, ma soprattutto nelle aree più povere dell’ordine la possibilità di offrire una formazione qualificata valorizzando quel Discepolato Francescano che insieme alla redazione della nuove Costituzioni costituisce uno dei due strumenti per dare attuazione alla priorità dell’ordine (Vivere il Vangelo) nel sessennio 2013-2019.

INTRODUZIONE   -   Verso Expo 2015
Mai, nella storia dell’umanità, si è prodotto tanto cibo come ai nostri giorni e mai come oggi i problemi in rapporto al cibo sono stati così critici: mentre più di 800 milioni di persone patiscono ancora la fame, circa 1,5 miliardi di persone sono sovrappeso e di queste più di 500 milioni soffrono di obesità. La fame e l’obesità globali – alle quali non si intende assolutamente attribuire pari drammaticità – sono però sintomi di un unico problema, di un rapporto negato e negativo con il cibo, di privazione o di sopravvalutazione dello stesso. Per ragioni economiche e politiche, quasi sempre per motivi di interesse e di profitto (cf. R. Patel, Stuffed and Starved [“Obesi e affamati”], Portobello Books Ltd 2007). Nel mondo occidentale, inoltre, prosperano disagi alimentari quali l’anoressia e la bulimia, il primo legato al problema dell’immagine, cioè all’estetica del corpo, e il secondo al mito del consumo che innesca un meccanismo di accumulazione infinita e irrefrenabile. A ben guardare, si tratta di due questioni decisive per l’uomo contemporaneo, dal momento che l’identità, sempre più determinata dall’apparire, è anche collegata a doppio filo al processo di acquisizione e consumo dei beni. Riflettere sulla complessità di questi intrecci, impedisce di mettere noi stessi dalla parte della soluzione del problema, che sarebbe in altro luogo, lontano o limitato ad alcuni paesi o situazioni marginali.
L’occasione di una riflessione di questo genere è offerta da un evento internazionale quale L’Expo (ufficialmente Esposizione Universale) di Milano 2015, dal titolo suggestivo: Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita / Feeding the Planet, Energy for Life. L’evento, che si svolgerà nella capitale economica d’Italia per 184 giorni – da venerdì 1° maggio a sabato 31 ottobre 2015 –, intende mettere a fuoco le importanti questioni del cibo e del nutrimento per tutti in rapporto alla sostenibilità del pianeta. Nella doppia prospettiva della Food safety, o garanzia della genuinità dei prodotti alimentari consumati, e della Food security, vale a dire l’accesso di tutti al cibo e all’acqua necessari per il proprio bisogno, in modo da sconfiggere definitivamente la piaga della fame nel mondo.
Il logo dell’Expo 2015 è il celebre disegno “Uomo di Vitruvio” di Leonardo da Vinci, simbolo riconosciuto dell’uomo che si colloca perfettamente al centro delle dinamiche planetarie e cosmiche. L’uomo Vitruviano, infatti, è all’interno di due figure geometriche, il cerchio e il quadrato, considerate perfette dal filosofo greco Platone, che insieme rappresentano la creazione: il quadrato richiama la Terra e il cerchio l’Universo. L’uomo entra in contatto con le due figure in maniera del tutto proporzionale e ciò rappresenta la natura perfetta della creazione dell’uomo in sintonia con Terra e Universo. Anche se oggi questa armonia uomo-pianeta-universo è in gran parte da rifare.
Parteciperanno a Expo 2015 ben 144 Paesi in rappresentanza del 94% della popolazione mondiale, e nei sei mesi di apertura sono attesi milioni di visitatori.
 Cibo, non solo carburante
Nutrirsi e nutrire, sono due gesti che fanno l’intelaiatura della vita e nel loro ripetersi garantiscono la sua sussistenza. Anche se la routine ci ha sottratto questo senso profondo, il cibo è ciò che ci strappa alla morte, rivelandoci la limitatezza dell’esistenza umana, il fatto di essere creature bisognose e dipendenti. Il cibo, poi, non nutre solo il corpo, ma consolida e custodisce le relazioni, le arricchisce e le qualifica. Anche per questo il pane non è mai solo pane, ma rimanda al rapporto buono o malato che noi intratteniamo con il mondo, le cose, gli altri vicini e lontani, con il nostro e l’altrui corpo. Nutrirsi e nutrire esprime anche una separazione dei tempi, a seconda della densità di significato e di importanza che questi hanno in rapporto alla vita personale e comunitaria. Vi sono i pasti quotidiani, quelli festivi e i tempi di digiuno, che consistono in una privazione temporanea del cibo o in una diminuzione nell’assunzione dello stesso. Se il cibo della festa, in abbondanza e quasi in eccesso, è una intensificazione dell’offerta di alimenti e di bevande che ha come obiettivo il “fare festa”, il digiuno rimanda al vero nutrimento, quello fraterno e spirituale, mentre normalmente il cibo è realtà quotidiana la cui verità è il percepirlo, tanto o poco che sia, come dono.
L’intreccio del cibo con il mondo, con la vita e con gli altri è dunque più stretto di quanto si pensi, e ci pone “sul piatto” una delle grandi questioni dell’esistenza umana: il rapporto tra natura e cultura. Pensiamo soltanto al fatto che nell’Eucaristia noi non offriamo il grano e l’uva, bensì il pane e il vino, quindi una storia di abilità e di trasformazioni, di lavoro e di fatica, nella quale l’uomo ha accolto, adattandoli a sé, i doni del Creatore. Oltre a ciò, il cibo è sempre un rimando ad altro: a chi lo produce (a volte in regime di sfruttamento o retribuzione ingiusta, o anche di privazione di diritti), al luogo dove viene prodotto (per cui si parla di prodotti a chilometri zero, più genuini e meno inquinanti), al modo in cui viene consumato (in solitudine, nei pranzi veloci e seriali stile fast food, oppure nella convivialità). A partire dal cibo, quindi, possono essere sollevati molti interrogativi, anche drammatici: quanta giustizia e quanta ingiustizia, quanta pace e quanta violenza, quanto lavoro e quanta rapina nel gesto naturale, spontaneo e necessario di nutrirsi? Parlare del cibo, che non è solo “carburante” per vivere ma implica dimensioni relazionali a corto e lungo raggio, significa parlare dei grandi problemi che attanagliano e preoccupano l’umanità, e spinge il nostro sguardo verso orizzonti più vasti e spesso trascurati.
CAPITOLO I°   -   Per nutrirci e nutrire
Le riflessioni che seguono vogliono partire dalla vita per ritornare alla vita. Non in modo direttivo bensì descrittivo, per cui le domande non vengono enunciate alla fine – a raffica – ma fatte sporgere dal testo, strada facendo.
 Cura del cibo
Per molti frati, soprattutto nelle grandi comunità, il cibo è qualcosa che entra in scena e alla fine del pasto scompare (in quel che resta) sopra un carrello di metallo con le rotelle. Generalmente si presenta già pronto e ben ordinato dentro grandi vassoi, perché ognuno possa fare la sua scelta. C’è chi si è preoccupato di acquistarlo, di conservarlo e cucinarlo per noi, che siamo così l’ultimo anello di un’efficace catena di montaggio. Pochi frati, a volte nessuno, hanno messo, come si dice, “le mani in pasta”, si sono cioè dedicati in qualche modo alla cura del cibo del quale tutti possono fruire, in genere con discreta abbondanza e varietà. Eppure qualcuno sostiene che Gesù fosse anche homo culinarius, che sapesse cioè cucinare (cf. G.C. Pagazzi, La cucina del Risorto. Gesù cuoco per l’umanità affamata, EMI 2014), e certamente l’ha fatto per alcuni suoi discepoli dopo la risurrezione (“Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”, At 10,41), precisamente lungo le rive del lago di Tiberiade, una modalità del tutto geniale di riavvicinamento e ripresa di contatto: “Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace, con del pesce sopra e del pane… Disse loro Gesù: Portate un po’ di pesce che avete preso ora… Venite e mangiate… Prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce” (cf. Gv 21,9-13). Il troppo facile e scontato parallelo con la cena eucaristica, ha messo in ombra la specificità rivelativa di questi gesti del Risorto: essi non esprimono solo qualcosa di già espresso, ma indicano un modo nuovo, gestuale e concreto di prendersi cura dei discepoli. Trasformando il cibo e approntandolo per questi pescatori prima sfortunati e poi sorpresi per “la grande quantità di pesci” impigliati nella rete, Gesù vive il piacere di com-piacere, di prendersi cura dei suoi amici, ristorandone il corpo e rianimando così la loro speranza. La cura del cibo, che il più delle volte nei nostri conventi è delegata a mani professionali, non è cosa che vada evitata né tanto meno disdegnata, perché dice di un’attenzione vera e immediata al fratello, al suo stare bene nel corpo e nello spirito.
 Cibo che unisce
Quando si desidera incontrare un amico e sostare un po’ di tempo con lui, in genere lo si invita a pranzo o a cena: “Ti va di mangiare qualcosa insieme?”, oppure, se il tempo è poco, si prende con lui un caffè, una tazza di tè, un mate… Il cibo è una necessità ma anche un’occasione per stare insieme, per parlare e raccontarsi, per aggiornare l’altro sugli ultimi avvenimenti, di come vanno le cose, a volte per confidarsi. Intorno alla tavola fioriscono e crescono le amicizie, la vita delle famiglie e allo stesso modo la vita di ogni comunità umana e religiosa. “Dimmi come (e con chi) mangi e ti dirò chi sei!”, perché stare a tavola è esercizio di umanizzazione.
Come frati, spesso solo a tavola siamo così fisicamente vicini, così loquaci o taciturni, con la necessità di rispettare precedenze e sincronizzare i nostri tempi su quelli altrui. Se qualcuno letteralmente divora il suo cibo, altri mangiano in maniera più distesa e rilassata, mentre altri ancora – perché anziani o malati – necessitano di diete particolari e devono usare o evitare alcuni alimenti: cosa che esige l’attenzione e la disponibilità di tutti. Partecipare o meno alla tavola comune non è la stessa cosa, perché alla lunga si disimpara non a mangiarema la relazione stessa, tutto ciò che nel cibo e attraverso di esso ci rapporta agli altri. Mangiare insieme è attingere la vita a una stessa fonte, sentirsi quindi solidali e amici, vicini e responsabili ognuno del bene-essere dell’altro: si mangia e si beve alla salute di qualcuno! Mangiare è al tempo stesso un gesto materiale e spirituale: mentre ci si nutre si crea comunione, si alimenta la comunione. Se da una parte niente come il cibo, nella sua materialità, sembra condurre lontano dall’assoluto (ricordiamo la celebre frase di Ludwig Feuerbach: l’uomo è ciò che mangia), la realtà dell’incarnazione ci orienta al cibo condiviso, dal momento che il gesto del cibarsi andrà sempre più “umanizzato”, passando dalla ineliminabile radice fisiologica e predatoria al suo significato di apertura e di dono nei confronti dell’altro, fino a diventare un gesto rivelativo, come avviene durante la cena di Emmaus (cf. Lc 24,30-31).
 Cibo benedetto
In tutte le nostre comunità, prima di sedersi a tavola il guardiano intona una preghiera alla quale tutti si uniscono. Si tratta, in genere, di una preghiera breve, anche perché il momento della mensa comune è in molti luoghi preceduto dalla recita dell’Ora media o dei Vespri. Non va però sottovalutata l’importanza di questa orazione prima dei pasti, che ha la funzione di mettere in atto, innanzitutto, un salutare – anche se momentaneo – distacco dal cibo già presente e non ancora condiviso. Attraverso il distanziamento della benedizione viene simbolicamente superata ogni avidità, ogni ingordigia, ogni aggressività: esso, infatti, collega a Dio e ai fratelli la realtà del cibo, leggendone la provenienza (da Dio, appunto) e la destinazione (per tutti i presenti e non solo) insieme alla bontà: “Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, poiché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1Tim 4,4-5). Il cibo è così identificato nella sua qualità profonda di dono del tutto positivo ricevuto e da ridonare, di cui non ci si può appropriare a scapito degli altri. Orientandoci oltre l’ingratitudine, quella superficialità che ci fa considerare quanto riceviamo come scontato; oltre l’autosufficienza, che ci illude di bastare a noi stessi; ma anche oltre l’indifferenza, che neutralizza l’altro poiché giudica la sua presenza troppo ingombrante e al limite competitiva.
Se la benedizione del cibo ci traghetta da una logica possessiva, di accumulo e di fruizione solo individuale, alla logica della condivisione e del dono, la mensa comune è per eccellenza luogo della circolazione del “dono” che si rifrange nei singoli doni. La caratteristica peculiare del dono è quella di far circolare affetti, più che oggetti, il bene più che dei beni. Visti in questa prospettiva, i pasti comuni sono veri e propri luoghi strategici del nostro incontro amorevole con i fratelli. Non soste obbligatorie per fare incetta di calorie in vista dell’esigente lavoro apostolico, bensì spazi di fraternità di alto livello, tanto che quando non si riesce a costruire fraternità intorno al cibo diventa molto difficile poterlo fare in altri momenti e contesti.
 Cibo sprecato
Quello dello spreco di cibo è uno degli scandali più drammatici del nostro tempo. Investe le catene di distribuzione alimentare come i grandi magazzini – dove le merci sono poste in vendita –, i luoghi pubblici di ristorazione ma anche la gestione del frigorifero di casa. La parola consumismo, troppo spesso abusata o utilizzata in modo moraleggiante, indica, oltre a uno stile di consumo esagerato e sproporzionato, una logica di pensiero secondo la quale le cose hanno una data di scadenza e anche quando non l’avessero vanno quanto prima sostituite con altre, nuove e più promettenti. “Consumo, dunque sono!” è l’imperativo di uomini sempre più spaesati che si illudono di ricevere identità e prestigio da quanto consumano e quanto più consumano. Paradossalmente, l’economia del mondo occidentale, che un tempo prosperava sfruttando i produttori di beni, oggi fa la sua fortuna sfruttando i consumatori degli stessi, lusingandoli e seducendoli con pubblicità ingannevoli. Ma perché il consumo possa continuare la sua marcia trionfale è “necessario” che ci sia lo spreco, fino all’assurdo che rende lo spreco un ingranaggio determinante del processo economico. “Il consumismo – secondo Papa Francesco – ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale talvolta non siamo più in grado di dare il giusto valore, che va ben al di là dei meri parametri economici. Ricordiamo bene, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame!” (Udienza 5 giugno 2013). “Non si può tollerare che milioni di persone nel mondo muoiano di fame, mentre tonnellate di derrate alimentari vengono scartate ogni giorno dalle nostre tavole” (Papa Francesco, Ai membri del Parlamento Europeo, 25 novembre 2014). Non sono parole nuove, mai sentite, ma piuttosto parole che ci dicono ancora una volta come una delle grandi difficoltà della nostra epoca è quella di “sentire l’altro”, di attrarre il suo benessere o malessere nel proprio orizzonte d’esperienza, con vera empatia, lasciandosi toccare nel profondo dalle sue reali condizioni di vita, che è poi l’unica possibilità per poter essere davvero reattivi. Quello di non sprecare dovrebbe essere per noi francescani una sorta di comandamento, perché ogni spreco di cibo (acqua, energia, suolo…) è spreco della creazione e rende la terra più povera e inospitale per le generazioni future. Se il cibo che finisce nei rifiuti mangia tante risorse ed è un insulto per chi patisce la fame, l’imperativo è far dimagrire, anche nelle nostre comunità, il bidone della spazzatura.
 Cibo per tutti
“Egli dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre”. Così il Salmo 136,25 descrive la premura di Dio verso ogni creatura, non solo umana. Ogni vivente ha diritto a ricevere la sua parte di cibo, e Dio stesso è impegnato affinché a nessuno manchi il necessario. Non a caso il miracolo più raccontato nei Vangeli – per ben sei volte – è quello della moltiplicazione dei pani, in seguito al quale Gesù offre cibo a gente affamata; anche se è chiara la consapevolezza che il pane proviene da Dio e viene da Lui elargito. “Nessuno prima aveva mai mangiato come Gesù, da Figlio che riconosce di ricevere il pane così come ha ricevuto la vita. Anche nel gesto di sfamare gli altri egli si comporta da Figlio, non trattenendo per sé ciò che è ben consapevole di aver ricevuto” (G.C. Pagazzi, La cucina del Risorto, cit., p. 18).
Oggi il pane per tutti, il cibo necessario al sostentamento garantito per ogni uomo, non è ancora realtà. Nel nostro mondo la tragedia della fame è purtroppo di casa, per cui “una delle sfide più serie dell’umanità è la tragica condizione nella quale vivono ancora milioni di affamati e malnutriti” (Francesco, Messaggio per la giornata mondiale dell’alimentazione, 16 ottobre 2013). Resta di attualità la parabola del ricco epulone (cf. Lc 16,19-31) che “indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti” (v. 19). Non sono però questi eccessi a essere direttamente condannati dal testo evangelico, quanto piuttosto la cecità che ne deriva nei confronti del povero che “stava alla sua porta…, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola” (v. 21). L’insensibilità e il cuore chiuso del ricco epulone sono anche il grande peccato del nostro tempo, che esclude i poveri riservando loro le briciole, gli scarti e gli avanzi, per cui siamo di fronte a “un’economia dell’esclusione e dell’inequità” (Francesco, Evangelii gaudium n. 53). Difficile, in tale contesto, difendere la teoria economica della “ricaduta favorevole” (ivi n. 54) secondo la quale se il capitalismo produce crescita e benessere per chi è già benestante questo andrebbe anche a vantaggio dei poveri, che in proporzione ne riceverebbero beneficio. Sarebbe come dire che per aiutare il povero Lazzaro si dovrebbe fare in modo che il ricco Epulone consumasse di più e producesse così più briciole (cf. Ó. Maradiaga, Senza etica niente sviluppo, EMI 2013, pp. 58-59). L’inclusione sociale, la qualità delle relazioni, il riconoscimento della pari dignità e degli stessi diritti è il fine ultimo della solidarietà e della condivisione dei beni. Se non si risolveranno i problemi dei poveri – sostiene Papa Francesco – non si potranno risolvere i problemi del mondo, anzi, di più, nessun problema globale potrà essere davvero risolto (cf. Evangelii gaudium n. 202).
Come? Con una Chiesa povera per i poveri, è la risposta dei cristiani insieme con Papa Francesco: e se il secondo aspetto, per i poveri, è stato sempre praticato con grande generosità, il primo, Chiesa povera, è stato poco considerato fino ad oggi, sia teologicamente che pastoralmente. Per i francescani vale la stessa prospettiva, nel senso che va superata la lettura della povertà intesa solo come virtù personale, per recuperarne il fondamentale aggancio cristologico e la sua esplicitazione ecclesiale (cf. Lumen gentium n. 8), così come la sua carica di umanizzazione personale in vista della solidarietà con ogni fratello.
 Cibo in eccesso
Ogni epoca è stata contrassegnata da particolari malattie. Pensiamo alla lebbra e alla malaria nel Medioevo, alla peste nel Seicento, alla tubercolosi nell’Ottocento, al cancro e all’Aids nel Novecento, all’Ebola in tempi più recenti. Nel XXI secolo incalzano nuove malattie epocali, tra le quali ha grande diffusione l’obesità (l’essere in modo costante e sproporzionato in sovrappeso) col suo corteo di controindicazioni per la salute: ipertensione, diabete, alterazione del metabolismo... Il fenomeno è così vistoso e preoccupante che nel 2001 l’Organizzazione mondiale della sanità ha coniato il neologismo globesity, vale a dire obesità globale; se infatti nei paesi dell’Occidente l’obesità è data dalla grande disponibilità di cibo altamente calorico e dalla riduzione complessiva dello sforzo fisico soprattutto in ambito lavorativo, nel resto del mondo si sta profilando un vero e proprio cortocircuito: Paesi che da poco hanno vinto la fame, si stanno incamminando sulla strada dell’obesità. Mentre però in questi Paesi sono maggiormente a rischio le classi agiate, in Occidente vengono colpite dall’obesità soprattutto le fasce di popolazione a basso reddito, per cui si capovolge l’immaginario tradizionale della corpulenza del ricco e della magrezza del povero. Se la mancata disponibilità di cibo è ancora causa di sottoalimentazione per centinaia di milioni di persone e offende la dignità dell’uomo, un uso smodato e superficiale del cibo induce non pochi problemi sia fisici che psicologici. Il verbo mangiare, che per alcuni rappresenta un bisogno insoddisfatto e per altri un’ovvietà quotidiana, può diventare per altri ancora una tragica ossessione che deturpa la vita. Creando non raramente delle dipendenze che quando si cronicizzano esigono cure mediche specialistiche prolungate.
Ci potremmo chiedere se oggi è ancora di attualità il vizio della gola, in auge in passato e ai nostri giorni considerato con sufficienza, visto che si va assolutizzando l’idea secondo la quale il cibo è cultura, spesso senza l’avvertenza di specificare che non tutta la cultura è riducibile al cibo: il moltiplicarsi di programmi tv, libri e pubblicazioni periodiche sulla cucina e le sue raffinatezze è indicativo di questo orientamento. Di fatto, un sondaggio condotto in Francia nell’autunno del 2003 ha evidenziato come il vizio della gola sia, tra tutti, il più conosciuto ma anche quello ritenuto meno grave.
La Scrittura ci ricorda che fare del proprio ventre un dio porta alla perdizione (cf. Fil 3,19), non perché un bisogno naturale come quello di nutrirsi – che comporta una legittima piacevolezza – sia contrario alla fede cristiana, ma nella misura in cui si cade in una sorta di “religione del cibo” e si diventa schiavi del business della gola. Come frati il prendere cibo va sempre unito alla convivialità (cum-vivere), la quale condisce gli alimenti con la parola, la vicinanza, la fraternità, la condivisione. Non senza una certa sobrietà, che non significa per forza di cose solo togliere ma anche qualificare, nel senso di “meno ma meglio”, meno ma per tutti, meno ma genuino e non inquinante. Educarci al cibo, al suo valore e ai pericoli connessi al suo abuso, potrà essere di aiuto per realizzare comunità più sane e al contempo più sante.
 Cibo invocato
Non esiste solo la preghiera sul cibo, della quale abbiamo prima parlato, ma anche la preghiera per il cibo, che si può collocare all’interno di un doppio movimento, quello verso e dal Padre – “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, Mt 6,11 – e quello rivolto agli uomini che del pane hanno necessità: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37). Dio dona il pane affinché questo venga condiviso tra i suoi figli e nessuno ne abbia a mancare.
Ma sostiamo sull’invocazione del “pane quotidiano”, contenuta nella preghiera insegnata da Gesù ai discepoli e a loro affidata come modello di ogni invocazione. Al riconoscimento della centralità del Regno, con cui si apre il Padre nostro, seguono le richieste del Regno, al centro delle quali – sia nella versione di Matteo come in quella di Luca – sta proprio la richiesta del “pane”, tra l’altro l’unico sostantivo accanto al quale troviamo un aggettivo: “quotidiano”. Non c’è vita senza il pane concreto di cui ogni quotidianità si nutre, per cui è da evitare ogni spiritualizzazione che intenda sminuire questo significato materiale. Il pane, poi, è quotidiano perché il bisogno dell’uomo ma soprattutto il dono di Dio si rinnovano ogni giorno, scoraggiando ogni accumulo che metta in dubbio la provvidenza divina. “Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Mt 6,25-26). Il Padre buono è colui che nutre tutte le creature, scoraggiando per gli uomini lo stile dell’accaparramento per il quale scattano ansie e forme di antagonismo.
Inoltre il pane è invocato come “nostro”, quindi per tutti, la qual cosa indica una responsabilità distributiva che non può essere aggirata. In effetti, però, per molti cristiani chiedere a Dio il pane quotidiano quando questo è garantito e non costituisce una preoccupazione primaria, può apparire una recita. Ma è proprio quel “nostro” a fare la differenza e ad allargare gli orizzonti, a impedire che la “preghiera del pane” si riduca a formula vuota e innocua. E a renderci pensosi su quella eco-gluttony [eco-golosità] che consiste nel saziarci a scapito della fame altrui, benché si tratti di persone spesso lontane o invisibili.
Quotidianamente, nella santa Messa e nella liturgia delle Ore, i frati pregano a più riprese il Padre nostro, la preghiera dei figli e dei fratelli, che coniuga la dimensione verticale e orizzontale della fede. Vi chiedo, nel tempo della Quaresima e nei sei mesi di durata di Expo 2015, di pregare e di far pregare il Padre nostro ponendo attenzione particolare all’invocazione del pane per tutti.
 Cibo eucaristico
L’ultima cena è un evento del tutto speciale, fondativo nella sua eccezionale novità. Connessa con la Pasqua ebraica non è però la sua celebrazione, ma un andare oltre, dal momento che Gesù istituisce in quella cena la sua Pasqua. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,15-16). Si tratta di un testo equivoco, che papa Benedetto XVI così intrepreta: “Può significare che Gesù, per l’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV 2011, p. 130). Da una parte vi è la memoria di una storia di liberazione che ha suscitato, attraverso l’esodo dall’Egitto, un popolo con il quale Dio è entrato in alleanza; dall’altra vi è l’anticipazione della Pasqua di Gesù, poiché i Doni eucaristici sono un’anticipazione di croce e risurrezione. “Nell’atto di donare la vita – infatti – è inclusa la risurrezione” (ivi, p. 149). I cristiani, nei secoli, mangiando il pane e il vino benedetti e consacrati dal sacerdote hanno riattualizzato una storia di liberazione e al contempo accolto la salvezza di Gesù, la sua persona. Secondo la Sacrosanctum concilium (n. 7), la costituzione conciliare sulla divina liturgia, i modi in cui Gesù si fa presente nella sua Chiesa sono la Parola, i sacramenti, l’assemblea orante («Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro», Mt 18,20), i ministri sacri, ma nessuna di queste presenze, pure autentiche e importantissime, supera quella delle specie eucaristiche. “L’Eucaristia contiene infatti lo stesso Cristo ed è ‘come la perfezione della vita spirituale e il fine di tutti i sacramenti’ (cf. Summa Theol. III, q. 73, a. 3). […] Tale presenza si dice ‘reale’ non per esclusione, quasi che le altre non siano ‘reali’, ma per antonomasia, perché è sostanziale e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (Paolo VI, Enciclica sull’Eucaristia Mysterium fidei, 1965, nn. 39-40).
La celebrazione quotidiana dell’eucaristia ci unisce intimamente a Cristo e ai fratelli, all’umanità sofferente e affamata del cibo materiale e spirituale. L’uomo vive di pane, ma non soltanto di pane («Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», Mt 4,4), anche se il corpo di Cristo, il cibo spirituale, ci mette dalla parte di Dio e quindi ci apre alla solidarietà con ogni uomo. “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) indica non solo la necessità di ripetere il gesto sul pane, ma di rinnovare ogni giorno il dono di noi stessi ai fratelli, nello stile dello “spezzare il pane”, del condividere, dello sfamare ed estinguere ogni fame di Dio e di cibo.
 CAPITOLO II°   -   Alla tavola di Francesco
 Digiuno
Francesco d’Assisi è un uomo vissuto agli inizi del 1200 e quindi pienamente inserito – pur con la sua singolare creatività – nella cultura e mentalità religiosa del tempo. Che uomini di religione vivessero periodi più o meno prolungati di digiuno, soprattutto nei tempi prescritti dal calendario liturgico, era cosa del tutto ovvia, anche perché la tradizione monastica aveva per secoli affinato questo aspetto dell’ascesi cristiana praticato spontaneamente anche dal popolo. C’è poi da dire che nel Medioevo il settenario dei vizi capitali funzionava da carta topografica per indicare l’allontanamento e la distanza da Dio che ogni eccesso umano provocava. In questa prospettiva la gola, uno dei due vizi carnali (l’altro è la lussuria), era considerato la porta (“la bocca”) di tutti i vizi e quindi il primo da combattere per non permettere agli altri di sopravanzare. Il tentatore, di fatto, si avvicina a Gesù quando egli, dopo aver digiunato per quaranta giorni, “ebbe fame” (Mt 4,2). La tentazione del pane è quella che emerge in prima battuta e che fin da subito va affrontata. “Non si può infatti ingaggiare la lotta spirituale, se prima non si doma il nemico che è dentro di noi, cioè la gola”, sentenzia Gregorio Magno (Moralia in Job, Pars sexta, XXX 58). Questo modo di pensare, molto probabilmente era familiare a san Francesco che nella Regola inserisce – dopo le indicazioni sull’Ufficio divino – quelle sul digiuno: “E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. La santa Quaresima, invece, che a partire dall’Epifania dura ininterrottamente per quaranta giorni e che il Signore consacrò con il suo santo digiuno, coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. Ma l’altra, fino alla Risurrezione del Signore, la digiunino. Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. Ma in momenti di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale” (Rb III, 5: FF 84). Si tratta, come evidenziano i commentatori, di una prassi mitigata rispetto alla Regola non bollata, ma soprattutto in riferimento alla Regola benedettina (FF 84, nota n. 9) e ad altre legislazioni. Il testo, al v. 9, aggiunge inoltre la possibilità di essere esentati dal digiuno corporale per motivi di “manifesta necessità” (espressione larga e non di carattere giuridico), mentre l’ultima frase del terzo capitolo recita: “In qualunque casa entreranno, dicano prima di tutto: Pace a questa casa; e, secondo il santo Vangelo, sia loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro messi davanti” (v 14). Se la vita dei frati era tra gente povera e soprattutto in stato di missione itinerante – diversamente dalla regolarità tipica dei monasteri –, questa concessione non va intesa solo come permissiva (“sia loro lecito”), ma nel senso che i frati dovevano accontentarsi del poco che la gente offriva loro, confidando nella provvidenza ed esercitando così il realismo della povertà. In sostanza, sono i ritmi della missione apostolica a segnare i modi e i tempi del digiuno, non viceversa.  
 Convivialità
Se da una parte conosce il digiuno anche prolungato, san Francesco conosce altrettanto bene la convivialità, il fatto che condividere il cibo è esercizio pratico di vicinanza fraterna, modo concreto di prendersi cura del bisogno del fratello, segno esteriore che deve caratterizzare – anche con l’abbondanza – le grandi feste del Signore nostro Gesù Cristo, soprattutto il Natale. “Un giorno i frati discutevano assieme se rimaneva l’obbligo di non mangiare carne, dato che il Natale quell’anno cadeva in venerdì. Francesco rispose a frate Morico: ‘Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino. Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno’” (2Cel 199: FF 787).
Il santo di Assisi, come leggiamo nelle fonti, si dimostra attento non solo alle necessità di cibo dei fratelli, come quando interpreta come “dovere di carità” la condivisione della tavola con un frate che nella notte era stato assalito dai morsi della fame, invitando i confratelli a fare altrettanto (2Cel 22: FF 608), ma si fa attento ai loro gusti e desideri particolari, come quando accompagna un frate che voleva mangiare dell’uva in una vigna e comincia egli per primo a mangiarne (cf. 2Cel 176: FF 762). Mentre nessuna comprensione egli riserva a coloro che vogliono partecipare del frutto dell’elemosina senza prendere parte alla fatica della stessa, come quel “frate mosca”, troppo “amico del ventre”, che senza mezzi termini allontana dall’ordine (cf. 2Cel 75: FF 663).
Una bella sintesi dell’atteggiamento di san Francesco nei confronti del cibo ci viene offerta dalla Leggenda Maggiore di san Bonaventura: “Austero verso se stesso, umano verso il prossimo, soggetto in ogni cosa al Vangelo, era di esempio e di edificazione non solo con l’astinenza, ma anche nel mangiare” (LegM 5,1: FF 1087). La conclusione della vita del santo di Assisi, poi, è legata, come sappiamo, a una strana richiesta che ha ben poco di spirituale: egli domanda infatti a frate Jacopa, la quale lo esaudisce con prontezza, di portargli alcuni dolci che apprezzava in modo particolare, i mostaccioli (Lettera a donna Jacopa: FF 255 e CAss 8: FF 1548). Anche nel momento estremo del trapasso il cibo – in questo caso un tipo di dolce che aveva più volte gustato a Roma nel corso di una malattia –, assume per Francesco profonde risonanze relazionali e amicali.
Il tema della convivialità, del fatto che il santo di Assisi non voleva escludere nessuno dalla sua tavola, assume ai nostri giorni anche un concreto risvolto di carattere economico per quanto riguarda la solidarietà nell’ordine, in senso globale. Se una comunità si trova ad avere, oltre al necessario, del superfluo, questo deve andare a beneficio di altre comunità della stessa provincia che vivono in stato di penuria. La stessa logica vale nel rapporto tra province e custodie della medesima circoscrizione e infine tra le varie circoscrizioni dell’ordine. La carità verso i fratelli è uno sguardo che vede e una mano che si apre, per cui questo stile di reciproca attenzione e di mutuo scambio dovrà diventare nel tempo cosa del tutto normale.
 Riconoscimento e lode
“Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10,31): per Francesco, nella scia dell’apostolo Paolo, la priorità è mettere al centro il Signore e la ricerca di Lui in fraternità, subordinando a ciò tutte le questioni materiali, anche quella del nutrimento, che non va né sottovalutata né sopravvalutata. L’attenzione al cibo è sempre in funzione di una corretta relazione con Dio e con i fratelli, mai dettata unicamente da criteri di possesso e di sola fruizione. Dio viene lodato nell’abbondanza e nella penuria, e i suoi doni devono sempre condurre all’incontro con il donatore, a riconoscerne l’amorevole premura nei confronti dell’uomo e di ogni creatura.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta e governa, e produce diversi frutti con coloriti flori et herba” (Cant 20: FF 263). Dalla gratitudine alla lode è il passaggio che il Cantico di frate sole declina in tutto il suo svolgimento e invita a compiere. Tutto proviene da Dio, in particolare la “matre Terra” come dono prezioso e unico che sostiene la vita di tutti. Lo sguardo incantato di san Francesco nei confronti della creazione non trascura la necessità del “sostentamento”, visto che “sustenta e governa”, riferito alla Terra, viene generalmente tradotto con “ci alimenta e ci nutre”. Nelle parole di Francesco convivono poesia e concretezza, per cui egli è al contempo rapito in Dio e attento alle necessità di tutti, premuroso per il creato quale habitat voluto dall’Altissimo per le sue creature e col quale gli uomini devono stringere alleanza attraverso una custodia premurosa. Se “da un lato la natura è a nostra disposizione, ne possiamo godere e fare buon uso, dall’altro però non ne siamo i padroni. Custodi, ma non padroni” (Papa Francesco, Ai membri del Parlamento Europeo, cit.). Come abbiamo detto all’inizio, il tema del cibo è un tema generatore, che cioè allarga progressivamente il nostro sguardo dalla tavola al mondo, dal nostro bisogno alle necessità dell’umanità intera, dalle situazioni contingenti che ci troviamo a vivere a quella dell’intero pianeta. Affinché diventi uno sguardo responsabile.
 Conclusione
Cari fratelli, mi auguro che queste riflessioni abbiano incontrato il vostro interesse e che alcuni temi della lettera vengano ripresi insieme, in comunità, per essere sviluppati all’interno dello specifico contesto di vita nel quale svolgete il vostro ministero. I frati minori conventuali sono presenti in 63 Paesi del mondo nei cinque continenti, e quindi in situazioni culturali ed economiche le più varie, per cui il tema del cibo assume risonanze molto diverse. Vi chiedo, inoltre, di coinvolgere in questa riflessione anche i laici, per cercare insieme stili di vita in grado di coniugare frugalità e qualità, benessere e condivisione.
Ringraziamo ogni giorno il Signore buono e misericordioso del cibo che ci dona e che mai fa mancare alla nostra tavola. Rendiamo i pasti comuni degli autentici incontri fraterni, in cui il cuore si apre alla gratitudine e all’attenzione alle necessità dei fratelli, soprattutto se malati o anziani. Viviamoli come un tempo di grazia che il Signore ci concede per nutrire il corpo, lo spirito, le relazioni.
Cerchiamo di essere attenti a tutti coloro che mancano del necessario e possono essere raggiunti dalla nostra solidarietà, perché la tavola dei frati non escluda nessuno.
Santa Maria, che hai nutrito Gesù
e custodito in cuore le sue parole,
fa’ che ci mettiamo in ascolto del tuo Figlio
per nutrire di Lui la nostra vita.
Santa Maria, madre premurosa
che alle nozze di Cana hai visto,
tu sola, quello che mancava alla gioia di tutti,
rendici attenti alle necessità dei fratelli.
Santa Maria, che hai dato lode
al Dio che ha “ricolmato di beni gli affamati”,
apri i nostri occhi sulle necessità del mondo
perché nessuno manchi del pane quotidiano.

Miei cari fratelli, il Signore vi dia Pace!

Fonte: Curia Generalis Ordinis Fratrum Minorum Conventualium

Cibo e spiritualità

http://www.messaggerosantantonio.it/it/content/cibo-e-spiritualita-la-strana-coppia


Articolo interessante, molto vicino alla tematica della prossima tavola rotonda del 30 settembre 2017

Cibo e spiritualità: la strana coppia

Secondo il filosofo ottocentesco Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia. Un’immagine densa di materialità che ci riporta in realtà allo stretto legame esistente tra nutrimento e vita spirituale. Perché dando voce al corpo ci riappropriamo del divino.